Cinema ungherese e calcio

TITOLO: Ungheria: i molti modi di sposare pallone e cinepresa.

Data: 1/1/2000

 

Il rapporto fra cinema e sport non č mai stato facile; apparentemente le varie competizioni offrono materia piů che abbondante per un loro utilizzo drammatico sullo schermo. In realtŕ cosě non č, in quanto ogni attivitŕ agonistica ha una precisa area di gradimento e ciň scoraggia i film tendenzialmente destinati ad una diffusione planetaria. Questa č una delle ragioni per cui il cinema americano, soprattutto quello degli ultimi trent'anni, č abbastanza povero di opere incentrate sugli sport. Qualche titolo sul baseball, la pallacanestro, il golf, il pugilato, ma, nel complesso, ben poca cosa se rapportata ai film sulla guerra, alle avventure spionistiche o a quelle spaziali. Inoltre la stragrande maggioranza di queste opere sono biografie, vere o inventate, di campioni famosi, oppure utilizzano lo sport come metafora di complesse relazioni psicologiche. Due esempi per tutti: "Tin Cup" (1996) sul golf di Ron Shelton - un quasi specialista di film sportivi, visto che č suo anche "Bull Durham" sul baseball - e "He Got Game" (1998) sul basket di Spike Lee. Questa diffusione dei vari sport per aree č alla base della scarsa fortuna del calcio quale argomento di film a dimensione internazionale. Intanto, non essendo uno sport di successo negli Stati Uniti, non č quasi mai stato affrontato da produzioni di ampio respiro. Non č un caso se uno dei pochi film spettacolari sul calcio, "Fuga per la vittoria" (Escape to Victory, 1981), č stato realizzato da John Huston, un regista che aveva una vera passione per l'Europa. Inoltre si tratta di un rifacimento, quasi fedele, di "Két félido a pokolban" (Due tempi all'inferno, 1961) di Zoltán Fabri di cui parleremo fra poco. In alcuni paesi calcisticamente sensibili, ad esempio in Italia, i film sul football sono piů numerosi, ma anche in questo caso spesso tendono alla commedia (da "Il presidente del Borgorosso Football Club", 1970, di Luigi Filippo D'Amico al recente "Tifosi", 1999, di Neri Parenti). Nel cinema europeo non mancano i casi, indicativi anche se numericamente molto limitati, di approcci piů approfonditi e drammatici. Tuttavia, anche in queste situazioni il fatto sportivo diventa metafora di altri conflitti: dilemmi morali come in "Gli eroi della domenica" (1953) di Mario Camerini, con Raf Vallone nel ruolo di un centrattacco insidiato da un tentativo di corruzione o come in "Hooligans" (ID, 1995) dell'inglese Philip Davis, in cui il dramma del fondo violento dell'essere umano č filtrato attraverso quello dei teppisti che compiono disastri in nome della passione per una certa squadra. Un tema che ritroviamo anche in "Ultrŕ" (1991) di Ricky Tognazzi. Pregevoli anche alcuni scandagli psicologici in cui la passione calcistica s'intreccia con le difficoltŕ del vivere; anche in questo caso un titolo per tutti: "Febbre a 90°" (Fever Pitch, 1997) di David Evans il cui sfondo č il sofferto campionato dell'Arsenal di Londra nella stagione 1988 - 99. In questa situazione il cinema ungherese rappresenta un'eccezione. Nel corso di una trentina d'anni a Budapest sono stati realizzati almeno sei film in cui il calcio ha un ruolo fondamentale. Non solo, ciascuno di questi titoli rappresenta, con maggiore o minore riuscita artistica, un tipo di approccio diverso, rispetto al rapporto fra uso del fatto sportivo e riflessione sociale o psicologica. Il titolo di piů antica produzione č "Két félido a pokolban" (Due tempi all'inferno, 1961) di Zoltán Fábri, basato su una storia inventata da Péter Bacsó. Primavera 1944, siamo in un campo di lavoro sorvegliato da militari ungheresi in cui sono rinchiusi soldati puniti, sovversivi ed ebrei. I carcerieri lavorano, di fatto, alle dipendenze dei nazisti. Per festeggiare il compleanno di Hitler un generale organizza una partita di calcio fra una squadra di detenuti e una rappresentativa dell'esercito tedesco. Uno dei prigionieri č incaricato di mettere assieme il gruppo e lo fa tra l'aperta ostilitŕ di una parte dei reclusi che rifiutano ogni collaborazione con gli aguzzini. Durante un allenamento la squadra degli internati tenta la fuga. Sono ripresi e condannati alla fucilazione che sarŕ eseguita dopo la partita. Riluttanti vanno ugualmente in campo e stanno per trionfare quando č offerta loro la possibilitŕ di una grazia, solo che lascino la vittoria agli avversari. Si sta per calciare un rigore, destinato ad essere decisivo. Il pallone entra in porta e le mitragliatrici crepitano. L'ultima immagine mostra il campo coperto di cadaveri. Importante la sequenza che precede il tiro dal dischetto, in cui anche i piů critici sull'opportunitŕ di partecipare all'incontro s'infiammano e incitano la squadra. C'č in questo brano una trasformazione del tifo in scelta politica che ritroveremo, vent'anni dopo e con toni diversi, in "Fuga per la vittoria" di John Huston, un film su cui varrŕ la pena ritornare. Il film di Zoltán Fábri si apre con un verso di Attila József (Oh Europa quante frontiere / con assassini a tutte le frontiere!) d'impronta non ottimistica, cosě come pessimista č il tono dell'intera opera. Unica eccezione il personaggio dell'indomito prigioniero comunista, una figura evidentemente imposta dai rigori dell'epoca. Questa visione disincantata ha un forte significato se si ricordano i dettami del realismo socialista in voga in quegli anni nei paesi d'area sovietica. Affrontare un tema cosě squisitamente politico, quale la lotta per la sopravvivenza e il dilemma fra la collaborazione con gli aguzzini e lo scontro aperto, esprimendo una visione che non lascia speranze né all'una, né all'altra ipotesi, significa sposare una concezione pessimistica del divenire umano, vale a dire l'apposto di quanto preteso dai guardiani dell'ideologia di regime. In altre parole il regista propone una metafora dell'approccio alla storia come a un succedersi di fatti finalizzati piů alla distruzione dell'uomo che non alla sua liberazione. Abbiamo accennato al film di John Huston, di fatto un vero e proprio rifacimento di quello ungherese, ma partendo da una diversa angolatura morale. Due i punti di contrasto: la positivitŕ dell'approccio alla lotta, significativamente il film termina con un lieto fine di massa, e lo stile spettacolare adottato dal regista america. Egliegirňto proprio in Ungheria,trasformando le scuderie di Allag nel lager di Gensdorf e mascherando il vecchio stadio dell'MTK in quello parigino di Colombes quanto riguarda il primo punto, l'adozione di un finale positivo, non risponde solo a precise regole commerciali, ma fa parte di quella mentalitŕ "ottimista" che č un dato fondamentale di buona parte della cultura cinematografica americana. Una nota importante riguarda il modo in cui sono girate le sequenze sportive. In nessuno dei due casi si puň parlare di brani memorabili, ma mentre il regista americano si muove, seppur a fatica, sul terreno della rappresentazione spettacolare, quello magiaro tende alla povertŕ delle emozioni visive, riuscendo a consegnare allo spettatore brani di forte intensitŕ e di consistente venatura realistica. "Régi idok focija" (Quei bei vecchi tempi del calcio, 1973) di Pál Sándor č uno strano film, in cui un gusto raffinato e, a tratti, eccessivo per la ricostruzione storica si somma ad una sorta di apologo morale. Siamo nel 1924 e Ede Minarik, titolare di una lavanderia e grande appassionato di calcio, fonda la squadra "Uva dolce" e compie ogni sforzo per mantenerla in vita: Ruba nel suo negozio, fa debiti, ma tutto č inutile. La sola via d'uscita č vendere il mitico portiere Péter Valay, vero sostegno della squadra. Nonostante i molti denari incassati, le cose non vanno meglio, in quanto gli altri giocatori, contagiati dal germe del denaro, iniziano a litigare. Del resto le difficoltŕ economiche non sono per nulla superate e, nella partita clou della stagione, č lo stesso presidente a difendere la porta dopo aver appeso una pistola ad uno dei pali: come un famoso portiere si ucciderŕ se subirŕ una rete. Resiste a tre tiri, ma prima che arrivi il quarto, abbandona il campo: per lui non c'č piů spazio in questo nuovo modo di fare sport. Tuttavia la passione non č sopita: dopo qualche mese lo vediamo fra i tifosi che aspettano, alla stazione di Budapest, la squadra nazionale reduce da una sonora sconfitta, tre a zero, ad opera della rappresentativa egiziana alle Olimpiadi di Parigi di quello stesso anno. E' un finale che cita apertamente un episodio accaduto trent'anni dopo: il mesto ritorno della "Squadra d'Oro" dopo la sconfitta subita la Campionato del Mondo del 1954. Altra citazione č la destinazione spagnola del portiere miracoloso. E' noto, infatti, che l'intera nazionale magiara si rifugiň in Spagna dopo la rivolta del 1956. Il film si presenta come un groviglio stilistico davvero singolare. C'č, in primo luogo un forte omaggio al cinema muto, ad iniziare da Chaplin - il personaggio principale č vestito e si muove come Charlot - e ci sono parti che trasudano citazioni felliniane, mentre altre accolgono lampi di polemica politica. Il dato piů interessante č proprio quest'ultimo. Infatti, in Ungheria l'inizio degli anni settanta č animato da un forte dibattito sulla riforma del sistema che vede scontrarsi i tecnocrati, attenti quasi solo esclusivamente al miglioramento delle condizioni produttive, e gli intellettuali che mettono in campo la necessitŕ di una riconsiderazione dell'intero complesso delle relazioni umane. In questo senso il film di Pál Sándor puň essere considerato anche un testo politico, seppur in panni che privilegiano l'operazione stilistica. "Szépek és bolondok" (Fuori gioco, 1976) di Péter Szász offre, invece, un esempio di spostamento deciso dell'asse del discorso. Una virata che non rinnega, anzi conserva, alcune tracce della metafora sociale presente nei film precedenti, ma che qui assume toni nettamente psicologici. István Ivicz lavora in una panetteria industriale. Il suo compito č consegnare pagnotte e sfilatini ai dettaglianti, un incarico poco piů importante di quello di un fattorino. Nel fine settimana quest'ometto insignificante si trasforma, si rasa, mette una vera al dito, un berretto nuovo, i vestiti migliori e va in provincia ad arbitrare partite di serie C. La sua salute č tutt'altro che buona, ma non si fa visitare, temendo di essere allontanato da quell'incarico in cui riesce a realizzare le sue uniche ambizioni. Come arbitro č corretto, scrupoloso, inflessibile nel pretendere il rispetto delle regole. Un sabato č scelto per dirigere l'ultimo incontro della stagione, una partita particolarmente importante ai fini della promozione alla serie superiore. Come assistenti gli capitano due guardalinee, che sono il suo esatto contrario: Gadásci č un infaticabile dongiovanni che usa il ruolo sportivo per portarsi a letto ogni donna che gli capiti a tiro, Charlie č un disilluso, pronto a scendere a qualsiasi compromesso pur di ricavarne un vantaggio. Lo scontro fra i tre č subito violento: István non ammette che gli altri due gozzovigliano e arraffino tutto ciň che č loro offerto. Nel corso della partita, poi, Charlie parteggia apertamente per la squadra di casa. L'ira dei tifosi esplode quando l'arbitro annulla un gol e espelle un giocatore, la terna arbitrale č costretta a passare qualche tempo chiusa negli spogliatoi. Dopo questo infortunio sono ospiti di una bella pasticciera che offre loro un abbondante banchetto. István si sente finalmente sicuro e tranquillo, tanto da raccontare di come, durante la guerra, é riuscito a salvare dal lager di Auschwitz due piccoli ebrei. Forse č solo una storia inventata, ma per la prima volta egli č al centro del rispetto e della considerazione di tutti. Una volta uscito dall'accogliente casa, sordo alle occhiate invitanti della padrona, ha un ripensamento e torna sui suoi passi. Quando la bella gli viene ad aprire in abiti discinti, egli scorge alle sue spalle Gadásci, mezzo svestito. L'ultima crudele burla gliela gioca Charlie, nel freddo dell'alba gli legge il giornale sportivo, appena uscito, in cui si magnifica l'integritŕ e il coraggio dell'arbitro. Quando strappa di mano il foglio al collega, scopre che, a proposito della partita, ci sono solo le formazioni, i marcatori e un aggettivo sull'arbitraggio: buono. Sul treno le liti si riaccendono e Charlie scende all'improvviso, inseguito da István, che quasi rischia di morire d'infarto. E' accasciato ai piedi di un albero quando una mano si tende verso di lui, č Charlie. Nonostante tutto bisogna aspettare la primavera e la ripresa del campionato. Il film presenta, sotto i panni di una storia psicologica, un forte discorso morale. Il conflitto fra il "vivere i sogni" e l'adattarsi alla realtŕ, fa anch'esso parte di quel dibattito cui abbiamo accennato piů sopra, uno dei momenti culturali importanti della storia ungherese di quegli anni. La fotografia costantemente sopra i personaggi, i toni prevalentemente notturni la quasi invisibilitŕ delle azioni di gioco, la scenografia che spazia dalla decadenza degli spogliatoi al polveroso decoro della casa della pasticciera, il tono stesso della regia contribuiscono ad esaltare un discorso in cui la collocazione dell'individuo, nello spazio e nel tempo, rimane problema aperto. "Mérkozés" (La partita, 1981) di Ferenc Kósa č, invece, un film direttamente politico. Lo č sin dalla scelta della collocazione temporale e dei personaggi. Siamo nell'estate del 1956, fra il XX congresso del Partito Comunista dell'URSS, ove Chrušcëv ha svelato i crimini di Stalin, e l'ottobre - novembre che vedrŕ la rivolta di Budapest e i massacri perpetuati dai carri armati sovietici. In una cittadina di provincia la squadra di calcio della polizia gioca una partita decisiva per l'ammissione alla serie B. I padroni di casa perdono l'incontro e gli spettatori invadono il campo. L'arbitro si rifugia negli spogliatoi ove il locale questore lo ammazza di botte, fracassandogli la testa sul bordo di un water. Il delitto ha due testimoni: un giocatore - poliziotto e un giornalista, uscito da poco di prigione ove era stato rinchiuso per motivi politici. Quest'ultimo approfitta della confusione per impossessarsi del "corpo del reato" e nasconderlo in un luogo sicuro. Ritornato a casa scrive un articolo in cui si racconta come sono andati i fatti e lo consegna al giornale. Poche ore dopo č nuovamente arrestato, resiste ai poliziotti e uno di loro precipita dalla scale e muore. Il Questore minaccia di incriminarlo per omicidio se non accetterŕ di sostenere una versione ammaestrata dei fatti. Il funzionario di polizia, davanti al suo rifiuto, ordina all'agente - complice a fare pressioni sulla la moglie per convincerla a indurre il marito a piů miti consigli. Visto inutile ogni tentativo anche in questa direzione, l'alto funzionario propone al prigioniero uno scambio: lui farŕ l'elogio funebre dell'agente senza fare alcun accenno alle circostanze in cui č morto e il cronista farŕ altrettanto a quelle dell'arbitro, avallando la tesi dell'uccisione da parte di un gruppo di teppisti rimasti sconosciuti. Il giornalista accetta, ma al momento di parlare racconta la veritŕ. La situazione č arrivata ad un punto critico e solo l'intervento del capo distrettuale della polizia puň risolverla, egli decide salomonicamente: non vi č stato alcun omicidio, il poliziotto č caduto accidentalmente e l'arbitro č morto in modo ugualmente casuale. Ora il reporter č libero, ma proprio nel momento in cui lo riportano a casa suo figlio uccide l'agente che aveva perseguitato la madre e si rifugia in un campanile ove una campana suona a distesa. Il riferimento finale č alla rivolta che scoppierŕ di li a pochi mesi ad opera di quei giovani che non tollerano piů i soprusi del regime. Un film, dunque, direttamente politico, con una abbondanza di dialoghi - caratteristica tipica del cinema magiaro degli anni settanta e ottanta - ancor piů accentuata che in altri casi. A questo proposito č bene riflettere se questa caratteristica costituisca un difetto, come si č sostenuto sino ad ora, o non rappresenti, piuttosto l'annuncio, magari confuso, di un'idea di cinema piů slegata, che non in passato, dalla variazione delle immagini. Quello stesso di cui sono oggi portatori registi come il portoghese Manuel De Oliveira o l'iraniano Abbas Kiarostami. Ritornando al film di Ferenc Kósa, esso si colloca fra i momenti piů interessanti di riflessione sulle ragioni della rivolta del 1956, un argomento per molti versi scottante che, per anni, il cinema e l'intera cultura ungherese hanno affrontato solo in modo indiretto. "Az aranycsapat" (La Squadra d'Oro, 1980) di András Surányi č un documentario sul cosiddetto "Golden Team" allenato da Gusztáv Sebes, capitanato da Ferenc (Frérot) Puskás e di cui facevano parte giocatori come Gyula Grosics, Nándor Hidegkuti, Sándor Kocsis, Zoltán Czbor, József Bozsik e Lázló Budai. Un gruppo che incarnň i sogni di un'intera generazione di sportivi sin dalla vittoria contro la nazionale inglese, per 6 a 3, il 25 novembre 1953 allo stadio di Wembley, lo stesso incontro che sarŕ al centro del film di Péter Timŕr di cui parleremo in seguito. Il lavoro di András Surányi ha il taglio di un serio reportage televisivo costruito secondo il modulo che comprende interviste a ex giocatori magiari e stranieri, uomini politici, organizzatori sportivi, unite a brani d'epoca. Il tutto cucito assieme da un particolare evento: il ritorno in patria, nel 1981, di "Frérot" Puskás, soprannominato "Il Comandante Lampo", dopo venticinque anni d'esilio in Spagna. Uno dei meriti non secondari del film č quello di collocare i fatti sportivi nel quadro del loro tempo, facendo emergere alcuni dei legami fra evento calcistico e politica, intesa in senso ampio. Un esempio per tutti. La spinta all'orgoglio nazionale suscitata dal regime in favore della squadra, divenuta una sorta di simbolo di riscatto e superamento dei mille problemi che affliggevano il paese. Dopo la sconfitta per 2 a 3, subita ad opera della nazionale tedesca nella finale dei campionati del mondo del 1954 organizzati in Svizzera, questa pulsione nazionalista si trasformerŕ in rivolta verso la squadra - il ritorno avviene di nascosto, facendo tappa in una piccola cittŕ prima di arrivare a Budapest alla spicciolata - e contro il regime. Ci sono proteste, incidenti, manifestazioni di piazza con arresti e condanne, quasi un preannuncio della rivolta dell'ottobre - novembre 1956. Allo stesso modo, appare davvero inquietante il brano in cui Nándor Hidegkuti ricorda come i dirigenti dell'azienda in cui lavorava la moglie gli chiesero d'intervenire per far arrivare alcuni pezzi di ricambio e come li ottennero grazie alla fama acquisita dal giocatore. Quest'intreccio fra rilievo delle persone e funzionamento della struttura produttiva, č una delle distorsioni di cui si sono nutriti e sono morti i regimi realsocialisti. "6 : 3" (6 a 3, 1999) di Péter Timŕr si riferisce al risultato della storica partita di calcio giocata, il 25 novembre 1953, nello stadio di Wembley ove il "Golden Team" magiaro sconfisse la squadra inglese. Un netturbino, nato proprio in quel giorno, riceve l'incarico di sbarazzare la stanza di un ex - massaggiatore. Trova una raccolta di ricordi di quella partita, fra cui la maglia numero nove indossata dal mitico centravanti Nándor Hidegkuti. Non resiste alla tentazione, l'indossa e precipita nella Budapest di quelle ore. E' un alieno in un mondo triste, oppresso, in cui tutti hanno paura di tutto, ove si rischia la prigione solo a cantare l'inno nazionale. Fa' vari incontri, tutti disastrosi: lo trattano da spia, provocatore, visionario. C'č una sequenza, tragicamente esilarante, in cui il protagonista capita in un cenacolo d'intellettuali, ove riconosce studiosi e scrittori che, dopo la fine del regime, si costruiranno biografie "resistenziali", mentre hanno sempre servito il potere imperante. Un altro brano, segnato da un'ironia terribile, č quello in cui, in una stanza per gli interrogatori, aguzzini e torturato stanno ascoltando la partita e tutti, il maltrattato compreso, si mettono a saltare di gioia all'annuncio del primo gol magiaro. Potrebbe sembrare un'invenzione geniale del regista, ma č solo la ricostruzione di una fatto realmente accaduto. Lo racconta lo scrittore András Berkesi ne "La Squadra d'Oro". Il film di Péter Timŕr č bello, preciso nella ricostruzione dell'epoca, giustamente in equilibrio fra ironia e dolore. Il suo pregio maggiore sta nell'evocazione di un'atmosfera di sospetto, in quel costringere gli esseri umani a vivere in modo grigio e diffidente. Un altro grave crimine del cosiddetto "socialismo reale". Inoltre, da un punto di vista stilistico, l'opera amalgama bene ironia, melanconia e denuncia politica. Un buon esempio, speriamo non l'ultimo, del rapporto che lega il cinema ungherese al gioco del calcio.

Umberto Rossi