Cannes 3

TITOLO: Festival di Cannes 2006:
Qualche riflessione

Data: 19/6/2006

URL: http://www.festival-cannes.fr/

seconda parte

 

Il 59mo Festival Internazionale del film ha indotto a molte riflessioni, quella che più ha interessato è la conferma, per il secondo anno consecutivo, del modesto livello qualitativo medio fatto segnare dal cinema a livello mondiale. Sono ormai quasi due anni, ad iniziare dal programma della Berlinale 2005, che i più attenti osservatori notano come i cartelloni delle maggiori rassegne cinematografiche e, di conseguenza, anche buona parte di quelle di secondo e terzo livello, stentano a presentare opere di grande interesse estetico e/o culturale. La cosa è apparsa particolarmente evidente in quest’edizione di una rassegna che da tempo si è affermata come la più importante del mondo sia a livello culturale che commerciale. Sono molte le ragioni che concorrono a formare questo fenomeno. Le più importanti sono: la crisi o il cambiamento di rotta delle cinematografie che, sino a pochi anni or sono, alimentavano in misura consistente il filone del cinema artistico e culturale, le scelte di molte industrie a favore delle produzioni tecnologicamente avanzate, anche a rischio di umiliare quelle più raffinate, infine la perdita di valore specifico del cinema a livello mondiale in favore di nuovi canali di comunicazione che, nello stesso tempo, sono anche nuove camicie di forza espressive.

Andiamo con ordine. Sino a cinque o sei anni or sono alcune cinematografie fornivano con costanza il meglio del cinema colto. Erano quell’iraniana e la Cina, intesa come nazione continentale, Taiwan e, seppur limitatamente, Singapore. Il cinema iraniano è stato cancellato dalla censura politica e dalle mutazioni di regime avvenute a Teheran, con la presa del potere da parte dell’ala più dogmatica e oscurantista del khomeinismo. La maggior parte degli autori che hanno fatto grande questa cinematografia negli anni novanta, sono andati in esilio o lavorano solo grazie a finanziamenti e con produzioni estere. I giovani che sono rimasti in patria e che non hanno fama sufficiente ad attrarre produttori occidentali, hanno ben poche possibilità di lavorare, quantomeno ad un cinema sociale o di qualità culturale, categorie molto mal viste dai religiosi integralisti. La cinematografia cinese, per anni una delle più vivaci e innovative, sta subendo la voglia di commercio di cui sono preda sia i funzionari pubblici, sia i maggiori produttori. Entrambi preferiscono di gran lunga un cinema ricco, schiavo degli effetti speciali, teso più all’intrattenimento che alla riflessione. In questa direzione stanno emergendo iniziative capaci sia di consolidare le posizioni di questa cinematografia all’interno della sua zona d’influenza, sia di insidiare quella dei grandi colossi americani. Questi ultimi, poi, trovano un temibilissimo concorrente in un’industria della pirateria capace di rifornire con abbondanza e regolarità non solo il mercato interno, ma anche quelli di grandi paesi come la Russia. Abbiamo scritto industria a ragion veduta in quanto va smentita l’immagine di una pirateria, cinematografica o meno, simile a qualche cosa di mafioso – artigianale identificabile con i minilaboratori che a Napoli duplicano le canzoni del Festival di San Remo registrando gli audio dalla televisione. Quello cinese è un settore industriale a pieno titolo, dotato d’apparati tecnologicamente avanzati e potenti dove lavorano migliaia d’addetti e che hanno canali di distribuzione, non sempre illegali, capaci di far arrivare milioni d’esemplari falsi, ma tecnicamente perfetti, in ogni angolo del mondo nel giro di una manciata d’ore dall’acquisizione della copia master. In queste condizioni è impensabile arginare il fenomeno perseguendo i venditori di strada o scatenando operazioni ridicole come quelle di spedire guardie private a sorvegliare le proiezioni stampa o quelle dei festival, per impedire che qualcuno registri il film con una minitelecamera. I valori in gioco sono talmente alti che l’acquisizione dei master non avviene certo rubando le immagini durante una qualsiasi proiezione semipubblica, bensì corrompendo qualche anello della filiera attraverso cui passano i DVD usati per la lavorazione dei film. Non a caso, infatti, accade frequentemente che gli esemplari piratati non siano quelli della versione definitiva, ma di una non ancora limata in ogni dettaglio. Visto che sono proprio i film di maggior richiamo commerciale a destare l’interesse dei contraffattori, ne consegue che gli americani sono anche i più danneggiati da questa forma di furto.

L’insieme di questi fattori svantaggia il cinema colto e indirizza alcuni dei nomi che ne hanno fatto la storia verso produzioni roboanti quanto culturalmente povere. Il caso più clamoroso è quello di Yimou Zhang che è passato da opere come Qiu Ju da guan si (La storia di Qui Ju, 1992), Da hong deng long gao gao gua (Lanterne rosse, 1991), Ju Dou (1990), Hong gao liang (Sorgo Rosso, 1987) a supercolossi del genere di Shi mian mai fu (La foresta dei pugnali volanti, 2004) e Ying xiong (Hero, 2002). La tendenza al cinema degli effetti speciali è il secondo elemento d’aggressione alle produzioni colte. In questo caso non si tratta solo di soggetti non compatibili, ma di una sorta di mutazione produttiva che condiziona nel profondo la qualità delle opere. Quando la maggior parte degli investimenti sono indirizzati in elaborazioni al computer e meraviglie elettroniche, è quasi naturale che quasi tutta l’attenzione si sposti dall’aspetto riflessivo a quello meraviglioso. Se la creatività s’identifica con la sorpresa tecnica, ne deriva un’umiliazione dell’invenzione stilistica e di quella espressiva. E’ questo un secondo ostacolo allo sviluppo del cinema a alto livello d’innovazione estetica.

Il terzo fatto che congiura contro lo sviluppo del cinema di qualità, è la perdita di centralità dello sfruttamento in sala, rispetto ad altri tipi di commercializzazione. La proiezione pubblica, con il suo carattere di rituale collettivo, rappresenta il terreno di coltura ideale per film che tentano di stimolare la curiosità e la comunicazione con e tra un pubblico attento e sensibile. Le nuove forme d’utilizzo - dai dvd, alle consolle per videogiochi, dall’home cinema, ai videotelefonini – presuppongono una parcellizzazione esasperata del rapporto opera – fruitore e una solitudine che depotenzia la comunicazione e annulla la circolazione delle sensazioni e delle idee. Inoltre la riduzione dell’importanza dello spettacolo pubblico, quasi sempre ridotto ad un rituale con forti caratteristiche consumistiche da praticarsi soprattutto nel fine settimana, aumenta il peso dei film superspettacolari e depotenzia, sin quasi all’emarginazione, quelli dotati di maggiori valenze culturali. I tre fattori che abbiamo elencato interagiscono con numerosi altri, ad esempio con la volontà dei dirigenti dei grandi festival a pigiare sempre più il piede sull’acceleratore della creazione d’eventi capaci di interessare i media. Caso tipico la presentazione, in apertura del festival di quest’anno, di The Da Vinci Code (Il codice Da Vinci) di Ron Howard, un film bruttissimo scelto solo per compiacere il baraccone pubblicitario costruitogli attorno.

Umberto Rossi