Festival di Karlovy Vary 2006

TITOLO: A Karlovy Vary vince una donna sola

Data: 2/8/2006

URL: http://www.kviff.com/?lang=en

La 41ma edizione del Festival Internazionale di Karlovy Vary si è chiusa con un bilancio quantitativamente molto positivo: oltre 11 mila gli accreditati, di cui quasi 600 giornalisti, 474 le proiezioni e 135.820 gli spettatori, 268 i titoli in cartellone, 226 dei quali lungometraggi narrativi. Sono cifre che confermano la forza di una rassegna insediatasi saldamente al secondo posto fra le manifestazioni cinematografiche centroeuropee, dopo il Festival di Berlino. Sul versante qualitativo il livello medio dei film in concorso, non era altissimo, ma ciò è più che spiegabile con le difficoltà imposte a qualsiasi selezionatore dalla crisi del cinema a livello mondiale.

Ha vinto Sherrybaby di Laurie Collyer, già positivamente segnalato al Sundance Film Festival, che racconta di un’ex drogata uscita dalla prigione dopo una condanna per rapina. La donna tenta di riprendere i rapporti con la figlioletta che, nel frattempo, è stata data in affidamento al fratello. Il suo è un difficile tentativo di reinserimento fra ricatti sessuali di coloro a cui chiede lavoro, ricerca di rapporti con altri compagni, violenze di poliziotti cinici e ricadute nella tossicodipendenza. Ogni tentativo fallirà e sarà lei stessa a capire che la bambina sta meglio con la nuova famiglia che non con lei. È un bel ritratto femminile intriso di disperazione e da cui emerge una donna inquieta, ma sostanzialmente onesta che cerca un punto d’aggancio con una realtà tutt’altro che benevola. È un film con il classico taglio da cinema indipendente americano, girato molto bene e con un’interprete, Maggie Gyllenhaal, d’altissimo livello a cui è andato anche il riconoscimento per la migliore interpretazione femminile.

I premi speciali della giuria sono stati assegnati, ex- aequo, a Obarnata elha (Albero di Natale sottosopra) dei bulgari Ivan Cherkelov e Vassil Živkov e a Kráska v Nesnázich (Bellezza nei guai) del ceco Jan Hřebejk. Il primo, segue il percorso di un enorme albero di Natale dalle montagne a Sofia. E’ il filo conduttore che cuce sei storie di vita contadina e zingara che formano un bel mosaico della realtà del paese. S’inizia con una donna che ritorna in patria dall’estero per rivedere l’uomo che ama, ma che non sembra curarsi di lei. Il finale sarà segnato dall’uccisione del classico vitello grasso: qualcuno paga sempre per il ritorno del figliol prodigo. Il secondo episodio, largamente il migliore della serie, segue una ragazzina incinta che arriva nella capitale, cacciata dai parenti, per trovare una chiesa che accolga, come accadeva nell’antichità, il frutto del suo ventre. Non sarà così e lei dovrà ritornare sui suoi passi, unendosi ad una sorta di processione laica e fanatica che disegna girotondi in alta montagna. La terza parte punta sul filosofico - surreale, mettendo in scena la morte di Socrate, vista attraverso i discorsi di due soldati imprigionati in un carcere militare. È la parte più ricercata, ma anche quella meno riuscita. Il quarto episodio racconta di una famiglia zingara che va a vendere cestini e cucchiai sulle affollate spiagge del Mar Nero. Due ragazzini, per gioco, fanno finire in mare un’escavatrice, non prima di aver raso al suolo una parte del loro accampamento. Il gioco è sulla contrapposizione fra questo corpo estraneo (i dialoghi fra i gitani non sono tradotti né sottotitolati) e il resto della società, una rivendicazione di diversità e, nello stesso tempo, un segnale della complessità sociale del paese. Il quinto episodio racconta il suicidio di un battelliere che vive da solo con il ricordo di una donna che non ha avuto il coraggio d’amare e che si è uccisa sotto i suoi occhi. La sua maggiore proprietà è un maiale, che dovrebbe funzionare da riproduttore, ma svolge male il suo ruolo. Solo, disperato, davanti ad una vita priva di senso, si uccide in modo crudele. Il sesto episodio fotografa una festa paesana con i banchi di giocattoli miseri e le danze contadine. Lo stile è fluido e controllato, il racconto procede con un ritmo lento come quello della società contadina a cui è dedicato. Il giudizio sul film ceco è assai meno positivo. Bellezza nei guai è una commedia a lieto fine, con tanti personaggi accattivanti, sempre allegri, anche se devono fronteggiare situazioni spiacevoli. Il tutto immerso in umore moralista, piuttosto difficile da digerire. Una giovane moglie con due figli, avuti da una precedente relazione, vive con un meccanico che ricicla auto rubate. Un giorno gliene portano una dotata di sistema di sicurezza satellitare e lui finisce in galera. Negli uffici della polizia la donna incrocia il proprietario della macchina, un distinto signore ceco che vive in Toscana ove possiede una ricca vigna. E’ un gentiluomo altruista e gentile, sino alla caricatura, che finisce per ospitarla in una sua casa praghese e condividerne il letto. Finale conciliatorio, ma con uno sbuffo di zolfo: nell’ultima immagine lei sta telefonando all’ex marito e si masturba. Il film è piuttosto modesto, superficiale e di stampo culturale, stilistico e tematico nettamente televisivo.

L’alloro per la miglior regia è andato a Reprise (Ripresa) del norvegese Joachim Trier che descrive giovinezza, crisi e successo di uno scrittore e dei suoi amici. Siamo alla metà degli anni settanta e un gruppo di ragazzi sta scegliendo la strada per il passaggio dall’adolescenza alla maturità. C’è chi diventerà uno scritture ci culto, chi navigherà ai limiti della fama, chi entrerà in una tranquilla vita borghese. E’ un film ben costruito, interessante nel cesello d’alcuni personaggi di sfondo, come lo scrittore famosissimo che rifiuta ogni mondanità; un personaggio che ricorda Jerome David Salinger, autore de Il giovane Holden (1951). Lo stile mescola suggestioni da film d’attualità con una scorrevolezza d’immagini molto moderna.

Il riconoscimento per la migliore interpretazione maschile ha coronato Andrzej Hudziak, interprete di Pár osob, krátkej čas (Varie persone, un piccolo tema) del polacco Andrzej Barański. Il film racconta l’amicizia fra il poeta Miron Bialoszewski (1922-1983) e la poetessa non vedente Jadwiga Stańczak. I due ebbero una lunga e strana relazione professionale con il buio - fisiologico in lei, spirituale in lui – come terreno d’unione. Siamo alla metà degli anni settanta, con la rivolta di Solidarnosc e il golpe del generale Wojciech Jaruzelski. Di tutto questo non arriva quasi nulla nelle stanze e nei salotti in cui i due poeti vivono, lei con funzione quasi di madre, e nelle riunioni letterarie che animano. Il film è il classico prodotto colto, raffinato nelle immagini, ma assai poco originale. Krystyna Janda interpreta con sobrietà il ruolo della poetessa, ma anche la sua è una prestazione più professionalmente corretta che autenticamente nuova.

La giuria ha riservato una menzione speciale a L’enfant d’une autre (La figlia di un’altra), della francese Virginie Wagon, che si pone un quesito di difficile soluzione: una bimba, sottratta alla madre quando era ancora in fasce, e allevata da un’altra donna, ha come vera madre la prima o la seconda? Su questo tema ruota il film che racconta di una donna in carriera, ricca e matura, che riconosce in una ragazzina, incontrata per caso, la figlia che le era stata rapita in tenera età. Quando riuscirà ad avere le prove del suo diritto, sarà convinta a rinunciarvi avendo capito che il bene della piccola vuole che lei rimanga con quella che crede sua madre. È il classico film francese di buona qualità, con una sceneggiatura solida, ottimi attori, una storia modestamente originale, ma anche molte ovvietà e una chiusura profusa di buonismo e moralismo.

Fra i premi collaterali, da segnalare quello della federazione internazionale della stampa cinematografica (FIPRESCI) che ha scelto Valkoinen Kaupunki (Città gelata) del finlandese Aku Louhimies. È la radiografia delle ragioni che portano un uomo, prima, in prigione, poi, a tentare il suicidio. Veli-Matti, taxista d’Oslo, va in crisi, quando la moglie Hanna lo abbandona per un paio di mesi, lasciandogli i tre figli, uno dei quali piccolissimo. L’improvvisa partenza ha come pretesto una sua scappatella, ma, in realtà, la donna si è innamorata di un francese e vuole avviare una nuova vita. Lentamente, ma prevedibilmente, lui inizia la classica discesa agli inferi, che prevede crescita ossessiva dell’amore per la moglie, errori professionali con conseguente perdita del lavoro, problemi economici sino all’uccisione, in un impeto di rabbia, di un vicino molesto che gli ha ammazzato il porcellino d’india che aveva comprato per il compleanno della figlia. In carcere, l’ex – moglie gli comunica che sta per trasferirsi definitivamente all’estero con i figli, la stessa notte lui tenta d’impiccarsi, ma lo salvano. L’ultima sequenza lo mostra mente esce dalla prigione: forse una nuova vita è possibile. Il film è anche una rilettura ironica di Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, opera citata più volte e un cui manifesto campeggia nella cella del protagonista. È il ritratto di un uomo che l’amore, meglio, la mancanza d’amore porta lateralmente all’annientamento fisico. Non c’è nulla di particolarmente originale, ma l’insieme della storia è raccontato bene, con gusto e misura.

La giuria ecumenica, invece, ha preferito El Destino (Il destino) di Miguel Pereira in cui un trafficante di droga, travestito da prete, si nasconde in uno sperduto villaggio di confine fra Argentina e Bolivia, dopo essere scampato ad un agguato. Lo accolgono a braccia aperte e lui pensa bene di rubare il prezioso ostensorio ospitato nella chiesetta locale. Dopo qualche anno lo troviamo a Madrid intento a campare con il gioco delle tre tavolette, ma sempre ossessionato dal ricordo del popolo, generoso, primitivo e spirituale a cui ha contribuito a rubare l’anima. Il film è tratto da un romanzo di Hector Tizón e percorre vie abbastanza logore, organizza situazioni già viste e finisce col risultare, oltre che prevedibile, anche noioso.

La manifestazione è stata aperta, fuori concorso, da Shi Gan (Tempo) del coreano Kim Ki-duk in cui il regista prosegue il discorso sull’ossessione dell’amore e sulle insidie del tempo, temi affrontati sin dal lontano Seom (L’isola, 2000). Al centro di questo nuovo film c’è una giovane coppia, in cui la donna è progressivamente posseduta dalla paura di ciò che succederà al loro amore, quando invecchieranno. Convinta che l’amante si stancherà di vedere sempre la stessa faccia, decide di sottoporti ad un intervento radicale di chirurgia estetica per diventare un’altra donna. Dopo aver cambiato lineamenti scompare. L’uomo la cerca disperatamente, incontra altre donne, ma nessuna lo accontenta, finché ne conosce una che gli sfugge. Allora è lui a farsi cambiare i lineamenti per conquistarla, solo che la concupita è proprio l’ex – amante. Ora è l’uomo a celarsi e la donna a cercarlo e a rifiutare di riconoscerlo anche quando lo incontra nuovamente. Il film è molto bello, raffinato nella costruzione, preciso nello stile e costituisce un piccolo gioiello di riflessione sui tempi dell’amore e quelli fisici. E' una collana di preziose osservazioni che formano, complessivamente considerare, un vero e proprio trattato fine e intelligente.

Qualche riga sugli altri titoli in concorso. Love Talk (Chiacchiere d’amore) di Lee Yoon-ki si muove all’interno della comunità coreana che vive in California e racconta una serie di storie che confluiscono in un finale comune. C’è la donna che si è sistemata con un istituto di massaggi, che è altro che un postribolo soft, c’è il giovane innamorato di una ragazza con madre a carico, il bellimbusto, l’ex-marito manesco e via elencando. E' un ritratto, a più tessere, che non esce dalla norma del genere e che dice poco su questa comunità. Lo stile è quello del film commerciale di qualità, gli interpreti sono di buon livello professionale, ma è un’opera tutt’altro che indimenticabile.

Mun mot mun (A bocca a bocca) dello svedese Björn Runge è un melodrammone che non risparmia i luoghi comuni del cinema corrente nordico. Ci sono donne sottomesse sino alla follia, mariti incestuosi, droga, violenza, tradimenti e relativi complessi di colpa. Niente sfugge a questo calderone di storie truculente il cui filo conduttore è costituito dagli sforzi di un buon padre, anche se un po' troppo autoritario, per strappare la figlia dalle grinfie di un prosseneta che la droga e la fa prostituire. Alla fine la famiglia si ricompone e tutto ritorna secondo i canoni della buona società ordinata.

Winterreise (Il viaggio d'inverno) dello svizzero Sebastian (Hans) Steinbichler ha lo stesso titolo di una composizione scritta da Franz Peter Schubert (1797-1828) nel 1827 e che è anche il tema musicale che forma una sorta d’ossatura del film. È il ritratto della follia distruttiva che porta un imprenditore, vittima di una truffa e sull’orlo del fallimento, ad andare in Kenya nel tentativo di recuperare il denaro perduto. Ci riesce, ma capisce che la sua vita, spesa male tradendo la vocazione per la musica, non ha più alcuno sbocco e si uccide. La storia abbonda d’ingenuità ad iniziare dal meccanismo del raggiro, notissimo a chiunque abbia un minimo contatto con internet, ma si emenda grazie all’interpretazione di Josef Bierbichler, a cui porge le battute una sbiadita Hanna Schygulla. Nella sostanza è il classico film per attore solista.

Shab Bekheier Farmandeh (Addio vita) d’Ensieh Shah-Hosseini è ambientato durante la guerra Iran – Iraq (1980 - 88). Qui una giovane reporter è mandata al fronte con i battaglioni votati al suicidio. Ha alle spalle un tentativo di togliersi la vita, dopo un matrimonio fallimentare. Il contatto con gli orrori del massacro la indurrà a cambiare parere e, prima, a tentare di salvarsi, poi, a morire al fianco dei suoi compatrioti dilaniati dalle armi dell’esercito di Saddam Hussein. È noto che il cinema iraniano sta attraversando una fase politicamente dura; quasi tutti i suoi migliori talenti hanno preso la strada dell’esilio, mentre quelli che sono rimasti sono costretti a tacere o a firmare opere dense di compromessi. Addio vita è una di queste. Si comprende abbastanza bene che l’intento della regista è di realizzare un film che denunci gli orrori della guerra, contrapposti alla sensibilità e all’umanità femminili. Il risultato, tuttavia, è talmente carico d’ossequi alla propaganda ufficiale da render il film quasi un’opera di regime. Lo stile è quello solitamente ingenuo dei migliori film iraniani, con i classici riferimenti al cinema neorealista e a quello democratico occidentale, ma ciò che manca è un’originalità di sguardo e una forza descrittiva che rendano reali quegli intenti che si intravedono dietro fotogrammi incapaci di esprimerli, ma solo di suggerirli.

Volando Voy (Vado volando) dello spagnolo Miguel Albaladejo filma la biografia di un ragazzino che, ad undici anni, è già implicato in una marea di crimini, dagli omicidi alle rapine, ai furti d’auto e ai rapimenti. È un personaggio realmente esistito e che, nel 1980, finì in un istituto sperimentale per giovani in difficoltà. Dopo qualche incomprensione si integrò talmente nell’organizzazione di diventarne un testimonial, oltre che uno stimato pilota collaudatore di Formula Uno. L’opera oscilla fra il film d’azione e la parabola morale, rimanendo costantemente a mezza strada. È la classica produzione professionalmente corretta, ma nulla più.

Mezcal del messicano Ignacio Ortiz testimonia come questa cinematografia stia riscoprendo l’antica tradizione al fantastico e all’incubico cara alla cultura latinoamericana. In questo caso la regia tiene anche conto della realtà: se ieri la rappresentazione tendeva all’irreale assoluto, oggi ci si muove su un terreno che, in qualche misura, tiene conto anche delle regole del verosimile. Il film racconta la storia, in se banale, di una donna che ritorna al paese in cui ha vissuto da piccola e ove ha amato l’uomo della sua vita. La vicenda è destrutturata in tante altre storie, tutte debitamente immerse in atmosfere cupe, plumbee, piovose. Non c’è molto di nuovo sotto il sole: la stessa immagine fotografica e la costruzione stilistica rimandano a cose già viste altre volte.

Peregon (Transito) del russo Alexander Rogozhkin ci riporta nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. Siamo nel 1944, in una base aerea dell’Unione Sovietica nella regione artica della Chukotka. Qui atterrano gli aerei, pilotati da giovani aviatrici americane, che gli Stati Uniti inviano all’URSS per rafforzarne la lotta antinazista. Ovvio che i severi e arrapati piloti russi di primo pelo, mandati a prelevare i nuovi velivoli, si sentono ringalluzziti e tentino in vario modo di conquistare le colleghe. Il film oscilla fra la commedia e il dramma, compreso un omicidio per ragioni sessuali. Ci sono anche alcune punture di spillo contro il regime e varie, moderate accuse ai crimini staliniani. Il film ha l’aspetto di una miniserie televisiva male adattata a film per le sale, con gli inevitabili sbalzi narrativi, i personaggi che scompaiono e un tono generale da piccolo schermo. E' un peccato perché questo regista ha diretto alcune opere di buon livello come Blokpost (Posto di blocco, 1998) e Kukushka - Disertare non è reato (2002).

Per finire, ecco qualche nota su alcuni nuovi film cechi. Abbiamo già detto di Kráska v Nesnázich (Bellezza nei guai) di Jan Hřebejk, veniamo ora a Ještĕ Žiju s Vĕšákem, Plácačkou a Čepicí (Il blues della iarda ferroviaria, 2006) degli esordienti Pavel Göbl e Roman Švejda, un film che rientra appieno nel catalogo delle opere agrodolci, più precisamente in qual filone lunatico, paesano e irriverente aperto, ad esempio, da testi come Treni strettamente sorvegliati (Ostře sledované vlaky, 1966) di Jiri Menzel. In una piccola stazione ferroviaria di provincia, un gruppo di tipi strambi vive come fuori del mondo. Sono figure legate da una solida amicizia che esclude tutto il resto e che coltivano un sentimento d’ironica e malinconica solidarietà, intessuta di bevute pantagrueliche, scherzi, indifferenza alle regole e alle gerarchie. Il capostazione tira avanti, giorno per giorno, senza troppe preoccupazioni e perdona facilmente le malefatte dei dipendenti che lavorano scherzano e si amano senza troppi pensieri né speranze. E' un film piacevole e dal gusto un po' antico che deriva da un testo teatrale e la cosa si nota in particolare dall’abbondanza dei dialoghi.

Indián a sestřička (L’indiano e l”infermiera) di Dan Wlodarczyk è il miglior film ceco visto negli ultimi anni. A prima vista sembrerebbe l’ennesima versione del dramma di Giulietta e Romeo, se non fosse per l’originalità dei personaggi e la forza dello stile. Maria, d’origine zigana, è infermiera nell’ospedale di una cittadina di provincia. È fidanzata sin da giovanissima ad un gitano, che ha avuto successo nell’industria delle costruzioni. František è operaio in una segheria e fa parte di un piccolo gruppo d’originali che, nel tempo libero, giocano a vivere come gli indiani del west. Quando i due s’incontrano è amore a prima vista, con gli inevitabili scontri fra le rispettive comunità, i pestaggi e le minacce incrociate. La storia finisce con la separazione forzata dei due che, s’intende, non proveranno mai più una simile felicità. La forza del film è nella descrizione, senza fronzoli e con stile quasi da attualità televisiva, dei rispettivi ambienti, uniti da una comune miseria economica, ma separati da fieri pregiudizi etnici. Il taglio è forte, la storia avvincente, il film molto bello.

Il cinema ceco non è insensibile alle suggestioni del film moderno, veloce e videoclippare. Lo dimostra Restart (Ripartire, 2005) di Julius Švečik. Martin abbandona Silvie, la donna con cui vive, dopo che questa gli ha giocato un brutto pesce d’aprile. Lei, disperata, inizia a cercarlo per tutta la città, sino a ritrovarlo, il giorno dopo, in meditazione sulla tomba di famiglia. Il film è costruito sulle immagini in soggettiva che scaturiscono dalla mente della donna durante la spasmodica ricerca dell’uomo che ama e a cui ha fatto torto. E’ opera di debutto e mostra una forte carica visuale, intessuta di suggestioni da video clip e da cinema modernista. Le sequenze, irreali o reali, vissute o rivissute in base ad un’immaginaria seconda possibilità, sono costruite con pezzi brevissimi, lampi di luce, montaggio forsennato, colori freddi o caldo – notturni. Non tutto è convincente, ma lo sguardo e la mano ci sono. Aspettiamo una seconda puntata.

Il problema della droga è sempre più attuale nelle società ex – realsocialiste e lo testimonia un film come Nebýt dnešní (Non d’oggi, 2005) che Petr Marek ha realizzato ispirandosi, assieme ad un gruppo d’attori della compagnia teatrale amatoriale d’Ostrava XXXH’X XOˇXXOXX, ad esperienze di amici. Tre giovani si ritrovano in un casolare di montagna, decisi a porre fine alla loro condizione di drogati. Il film registra i loro discorsi, l’evolversi delle condizioni psicologiche e il mutare del paesaggio. Il regista usa una piccola telecamera elettronica ed il film è su supporto DVD. E’ uno dei tanti esempi di cinema amatoriale che tenta di percorrere strane nuove, ma finisce col ricopiare percorsi già imboccati da altri con risultati ben più interessanti.

Umberto Rossi.