A Budapest fra polemiche e immagini disperate.

TITOLO: Settimana del cinema magiaro 2006

Data: 24/2/2005

La 37ma settimana del cinema magiaro si č aperta all’insegna della rovente polemica innescata dall'articolo, pubblicato sul settimanale Elet és Irodalcom (Vita e letteratura), in cui si rivelava che István Szabó, all'epoca non ancora ventenne, aveva fornito informazioni alla polizia politica sui suoi compagni di corso alla scuola di cinema. Erano gli anni immediatamente successivi alla rivolta antisovietica del 1956 e la classe di cui faceva parte il regista di Mephisto (1981) sarebbe passata alla storia come quella che sfornň alcuni fra i maggiori autori del nuovo cinema magiaro degli anni sessanta: Pál Gabor, Imre Gyöngyössy, Ferenc Kardos, Zsolt Kézdi-Kovács, István Gaál e János Rózsa. Nel corso della manifestazione c'č stata una conferenza stampa a cui hanno partecipato alcuni di quegli ex-compagni di scuola, che hanno confermato la loro solidarietŕ al collega e offerto varie testimonianze sul clima dell'epoca. Zsolt Kézdi-Kovács, in particolare, ha rivelato che anche lui ha fornito informazioni alla polizia politica e ricordato che lo ha fatto dopo essere stato imprigionato e minacciato d’espulsione dalla scuola di cinema. In quanto al contenuto reale di queste delazioni, ha assicurato di aver evitato di coinvolgere i piů compromessi, come Pál Gábor, che nel 1979 dirigerŕ Angi Vera, un duro atto d'accusa sulle persecuzioni e delazioni di quegli anni, e Imre Gyöngyössy, il regista de La domenica delle palme (1969), altro testo vigoroso contro la repressione e l'intolleranza. Il primo era sorvegliato in modo particolare, essendo stato ritratto, armi alla mano, mentre partecipava all'assalto della sede del Partito Comunista, il secondo aveva trascorso giŕ tre anni in prigione, avendo come compagni di prigionia alcuni degli esponenti che, negli anni ottanta, saranno riabilitati e chiamati a reggere importanti settori del Partito Comunista Magiaro. Zsolt Kézdi-Kovács ha anche ricordato come i rapporti, forniti da lui e dagli atri, erano talmente vaghi che due anni dopo l'ingaggio, considerata l’irrilevanza dei loro scritti, furono tutti licenziati dalla stessa polizia politica. Quale senso dare a questi scoop a cinquanta anni di distanza? Molti propendono per la versione secondo cui il piccolo partito di centro – sinistra SZDSZ (Alleanza dei Liberi Democratici), a cui la direzione della rivista é vicina, avrebbe cercato di guadagnare consensi facendosi portatore di una campagna moralizzatrice che dovrebbe metterlo al riparo dal pericolo di non raggiungere il quorum necessario ad ottenere rappresentanza parlamentare alle elezioni del prossimo 9 aprile. Altri individuano il vero obiettivo dell'operazione in un attacco alla chiesa cattolica e, in particolare al cardinale László Paskai, ex primate d'Ungheria, a cui la rivista ha dedicato, nel numero uscito proprio nei giorni in cui si teneva la Settimana, un lungo articolo con analoghe accuse. Il prelato, che ha fatto parte del movimento Preti di Pace, ha sempre cercato di stabilire rapporti di dialogo con il potere kadariano, al contrario del cardinale Minzenty. Quest’ultimo č vissuto 15 anni rinchiuso nell'ambasciata Americana di Budapest, dove si era rifugiato all'arrivo dei carri armati sovietici. La polizia lo voleva arrestare perché si era schierato al fianco dei rivoltosi, anche se, da bravo ultraconservatore, lo aveva fatto per chiedere l'abolizione della riforma agraria e la restituzione dei latifondi alla Chiesa e ai proprietari terrieri. C’č, infine, chi propende per la semplice ricerca di notizie sensazionali capaci di far aumentare la declinante tiratura della pubblicazione. C'é un pizzico di veritŕ in ciascuna di queste interpretazioni, ma resta un fondo limaccioso in una campagna scandalistica che esplode a cinquant'anni da quei tragici fatti e senza alcun’intenzione di avviare una seria indagine storica. Sempre a proposito d’István Szabó c’č da ricordare che la Settimana ha presentato anche il suo ultimo film, Rokonok (Parentela), il primo che ha realizzato in Ungheria dopo quattordici anni di lavoro all’estero. Alla base c’č un romanzo di Zsigmond Móricz (1879 – 1942), un classico della letteratura magiara. Vi si raccontano le speranze e le delusioni, sino al suicidio, di un giovane avvocato, nominato assessore alle finanze di una cittadina di provincia dai potenti locali, che lo considerano innocuo e malleabile. Il funzionario prende sul serio l’incarico, denunciando corruzione, soprusi e ruberie. Caduto in disgrazia, é vittima di una congiura tendente a dipingerlo come un profittatore e un disonesto. Non gli resterŕ che il suicidio. Il film non é fra i migliori di questo regista, eccede nei dialoghi e soffre l’interpretazione di un attore, István Kopjáss, molto stimato, ma, in questo caso, incapace di restituire la complessitŕ del personaggio. Fra i titoli in cartellone, che comprendevano l’intera produzione del 2005, tre hanno raccolto i maggiori consensi.

Taxidermia č il secondo lungometraggio di György Pálfi, un regista che ha giŕ sorpreso, nel 2002, con Hukkle, un film che racconta, senza dialoghi, ma solo con i suoni della natura, alcuni omicidi accaduti in un piccolo villaggio. La sua nuova opera č divisa in tre parti, abbonda d’immagini che richiedono stomaco forte e funziona come una sorta di discorso metaforico sulla storia del paese dal secondo dopoguerra ad oggi. Il primo episodio ha per sfondo una piccola guarnigione dove un attendente scheletrico e affamato, di cibo quanto di sesso, č tiranneggiato dal tenente che deve servire. Il poveraccio sogna di fare all’amore con la grassa moglie dell’ufficiale, ma, nella realtŕ, si congiunge con i pezzi di un maiale appena macellato. Il graduato lo scopre e lo ammazza. Il secondo episodio, ambientato negli anni del socialismo reale, ha taglio opposto e racconta di un campione di gare in cui i concorrenti si sfidano a chi mangia di piů, salvo vomitare quanto ingurgitato per essere pronti ad una nuova tenzone. L’ultima storia, ambientata ai giorni nostri, ha al centro un tassidermista, figlio di un campione delle gare mangerecce, che assiste il padre dispotico, immobilizzato su una poltrona. Litiga con lui e dimentica di chiudere la porta della gabbia in cui sono rinchiusi alcuni gatti particolarmente feroci che sbranano il vecchio. Vittima del senso di colpa si autoimbalsama e si fa decapitare da una macchina di sua invenzione. I suoi resti, abilmente sfruttati da un mercante, diventano un’opera d’arte esposta in una galleria che propaganda le nuove tendenze. Il film copre un arco che va dalla carestia alla falsa abbondanza, alla mercificazione totale del corpo. E’ violento nelle immagini, perfetto nella costruzione e nel racconto. Un altro titolo di rilievo č stato

Fehér tenyér (Palmi bianchi) di Szabolcs Hajdu in cui si racconta la storia di un ginnasta che, sin da bambino, deve vedersela con un allenatore sadico e violento. Dopo un’esperienza circense, tenterŕ, senza riuscirci, di conquistare il primato mondiale. L’ultima tappa lo vedrŕ fra gli acrobati che partecipano agli spettacoli del Cirque du Soleil. Il film intreccia passato e presente in un mosaico non sempre funzionale, ma ha un taglio visivo d’alto livello e sviluppa, soprattutto nella prima parte, un discorso tutt’altro che banale sul prezzo crudele imposto dalla corsa al successo e sul sangue di cui gronda qualsiasi societŕ gerarchicamente organizzata. Il taglio narrativo alterna i tempi del racconto, saltando dal passato al presente per ritornare al passato. E’ un movimento pendolare che la regia non domina a sufficienza lasciando spazio a zone d’oscuritŕ. Stilisticamente il taglio č ugualmente mescolato con una parte antica realizzata come un film neorealista – realsocialista e quella moderna non aliena da tendenze videoclippare.

Friss levegő (Aria Fresca) di Ágnes Kocsis ha toni che rimandano al cinema di Ken Loach e a quello dei Fratelli Dardenne. E’ il ritratto di due drammatiche solitudini: Viola, una donna ancora piacente, costretta, per sopravvivere a fare la guardiana delle toilette di un’importante stazione del metro e la sua giovane figlia Angčla che non le parla, si vergogna di lei e spalanca le finestre di casa, in pieno inverno, non appena la madre entra in casa dal lavoro. La giovane, che frequenta una scuola di stilismo, sogna di evadere dal grigiore di un’esistenza priva di qualsiasi barlume di speranza diventando una famosa creatrice di moda. La prima parte del film ha toni quasi neorealisti, con la descrizione della routine quotidiana, i silenzi carichi d’odio, le fobie umanissime della donna che consuma decine di bombolette spray nel tentativo di combattere il puzzo dell’ambiente in cui č costretta per molte ore. E' una situazione senza scampo, travolta da due episodi, uno quasi comico e uno tragico. La ragazza tenta di scappare da casa per andare a Roma ma, giunta alla frontiera con l’Italia, chiede un passaggio ad una coppia italiana, di cui non capisce la lingua, e che la … riportano a Budapest. Il secondo fatto ha, invece, toni drammatici. Una sera, alla chiusura, Viola č aggredita da un paio di malviventi che la derubano dell’incasso e la picchiano. Il gestore del servizio minaccia di licenziarla e, allora, sarŕ proprio la figlia a prendere il suo posto. Questo farŕ si che la ragazza inizi a capire quando dura sia la vita di sua madre. Un finale in cui s’intrecciano, in modo misurato, il rosa di una nuova, possibile solidarietŕ fra madre e figlia e il segno, cupo, di una condizione che non consente vie d’uscita. Il film ha toni scuri che esaltano e accompagnano un quadro umanamente dolente che la macchina da presa ricostruisce con taglio quasi documentaristico, senza eccedere in effetti pietisti o melodrammatici. A questo proposito un elemento di pregio č costituto dalle sequenze in cui seguiamo i tentativi della donna di ricostruirsi una parvenza di vita sentimentale frequentando sale di ballo o rispondendo alle inserzioni per cuori solitari. La nota stilistica complessiva inclina al realismo e qui il paragone con il cinema dei Fratelli Dardenne viene a pennello, privo di qualsiasi perorazione moralistica o falsa apertura ottimistica.

Il cinema ungherese ha sempre avuto la tendenza a sfornare commedie, prodotti che, molto spesso, nascevano dall’imitazione di modelli d’altre cinematografie e che andavano dalla grasse farse popolaresche alle storie all’italiana. I risultati non sono stati mai molto buoni, come dimostra il fatto che il cineasta piů impegnato in questa direzione, Pčter Bacsó, ha sempre fatto rimpiangere le sue prime opere, quelle socialmente impegnate come A tanú (Il testimone, 1969), film lungamente bloccato dalla censura, e Jelenidő (tempo presente, 1971), tra i primi film provenienti dai paesi del realismo socialista con un’immagine vera della condizione operaia. Questo regista ha presentato quest’anno un nuovo film, ultimo titolo di una lunga serie che, dal 1960, allinea ben trentatre produzioni. S’intitola De kik azok a Lumnitzer nővérek? (Ma chi sono queste sorelle Lumnitzer?) e racconta la storia sgangherata di due critici di cucina, odiati dall’associazione dei ristoratori al punto da ingaggiare una sorta d’agente segreto incaricata di metterli nei guai. E’ un film quasi invedibile, pasticciato, mal costruito, banale.

Su questo versante, abbastanza densamente popolato, meglio hanno fatto Krizstina Goda con Csak szex és más semmi (Sesso e nient’altro) e Gergely Fonyó regista di Tibor vagyok, de Hódítani akaroki! (Giovane, muto e folle d’amore!).

La prima racconta la storia agro – ironica, non banale, di una drammaturga trentatreenne che vuole un figlio senza che ciň comporti una relazione stabile con un uomo. Ovvio che, nella ricerca a tratti quasi frenetica, di un maschio che la metta incinta, incontrerŕ un bellone di cui s’innamorerŕ riamata. E’ un film leggero, ma non volgare dalle cui immagini traspare una capacitŕ non banale di manovra della macchina da presa. L’altra produzione guarda, invece, al filone, quasi inesauribile, delle prime pulsioni sessuali adolescenziali e lo fa ambientando le turbe ormonali di un liceale, in fragola per la statuaria amante di una losco banchiere, durante una vacanza in un albergo, con pretese d’eleganza, sul lago Balaton. Ovvio che il ragazzino finirŕ per avere la sua prima notte, ma questo avverrŕ fra le braccia di una coetanea che gli ha sempre fatto gli occhi dolci, anche quando lui era in tutt’altre faccende affaccendato. E’ un piccolo film con le inevitabili scene di psicosi della dimensione del pene, i non meno prevedibili qui pro quo e le usuali immagini di quieto erotismo patinato.

Un altro filone che interessa da tempo il cinema magiaro č quello storico, favorito dalla disponibilitŕ di luoghi e edifici di prestigio e in buono stato di conservazione. Un altro fattore, produttivamente importante, č legato all’interesse della televisione per questo genere, un interesse che, purtroppo, non tonifica il livello espressivo delle opere, come ha dimostrato, quest’anno, Vadászat angolokra (A caccia di un inglese) di Bertalan Bagó. E’ un film in costume che racconta una storia d’avventura e amore, nel piů classico stile televisivo. Anche in questo caso pesa la dipendenza da un’industria del piccolo schermo che, per sua stessa natura, tende ad appiattire stile, temi e modi espressivi.

Ci sono, poi, i film che tentano la strada dell’originalitŕ tematica o narrativa. Spesso sono operazioni che si fermano al livello del tentativo, anche se alcune di esse meritano di essere ricordate in quanto, alla buona volontŕ, si unisce un minimo di riuscita. Fra questi meritano di essere citate Az élet vendége – Csoma-legendárium (Un ospite della vita – Alexandere Csoma de Kőrös) di Tibor Szemző, A Herceg Haladéka (La tregua del Principe) di Péter Tímár, Johanna di Kornél Mundruczó, Lopott Képek (Immagini rubate) di József Pacskovczky, Madárszabadító, Felhő, Szél (Il salvatore d’uccelli, nubi e vento) d’István “Taikyo” Szaladják e Randevú (Rendez-vous) di Ágnes Incze.

Alexander Csoma de Kőrös (1784 – 1842), č stato un famoso orientalista che visitň il Tibet e vi soggiornň a lungo, componendo il primo dizionario, pubblicato dopo la sua morte, inglese – tibetano. Il compositore Tibor Szemző, affermato creatore di colonne sonore fra cui quelle di molti film di Péter Forgács, esordisce dietro la macchina da presa con un documentario poetico realizzato percorrendo, con una piccola telecamera, le strade su cui si avviň due secoli or sono lo studioso magiaro, dall’Afghanistan all’India, dal Pakistan al Tibet. E’ il classico documentario poetico, costruito su immagini virate, in cui il valore dell’elemento narrativo fa agio su quello d’informazione. Un testo dei sentimenti, piů che di documentazione. Naturalmente il ruolo della colonna sonora assume un valore primario e l’intero film rimane nella mente come omaggio a quel senso dell’oriente che ha contagiato piů di una generazione.

Péter Tímár ha spesso firmato opere non banali, anche se non č mai riuscito a licenziare un titolo memorabile. Tale č anche questo La tregua del principe in cui la storia, tutt’altro che originale, della persona rimandata sulla terra, dopo essere morta, con il compito di trovare qualcuno che accetti di sostituirla, mescola osservazioni psicologiche a sequenze fantastiche certamente sconcertanti, come quei cavalieri della morte che inseguono la protagonista nelle strade della Budapest d’oggi. E’, in definitiva, un film non riuscito che pencola piů sul versante della presunzione che non verso quello dell’originalitŕ creativa piena.

Johanna di Kornél Mundruczó č ben piů riuscito. Il film inizia come la ripresa di un’esercitazione di salvataggio da un qualche disastro ambientale, ma subito si ferma, passa dalla recitazione al canto e diventa una sorta d’opera lirica cinematografica su un’ex – drogata, che rischia di morire, ma esce dal coma cosě carica di bontŕ, da guarire anche gli ammalati piů gravi facendo l’amore con loro. Questa sua particolare capacitŕ (dopo tanti rapporti sessuali č ancora vergine. Questo ci ricorda qualche cosa?) suscita l’invidia e le ire dell’apparato sanitario che, prima, tenta di portarla dalla parte delle istituzioni, poi, quando lei rifiuta, la uccide, salvo santificarla dopo morta (anche questo non vi ricorda niente?). Il tutto girato con colori marci, in ambienti sotterranei e fatiscenti, secondo le preferenze estetiche del grande Béla Tarr, che qui funziona da coproduttore. Tuttavia il film aggiunge ben poco all’opera dell’autore cui s’ispira, rimanendo un esempio di talento non messo a buon frutto, e di sicura, ma algida, abilitŕ tecnica.

Immagini rubate di József Pacskovczky č il classico prodotto di cui si suole affermare che ha un soggetto perfetto per un mediometraggio, ma del tutto stiracchiato per un film vero e proprio. L’originalitŕ consiste nel basare tutto il racconto visto in soggettiva dall’obiettivo di una cinepresa amatoriale che, passando di mano in mano, presenta ambienti e personaggi segnati da degrado, malinconia, solitudine. Alcuni anni or sono un cineasta greco, Vassilis Katsikis, tentň una strada simile con CCTV (2004), in qual caso si trattava di una videocamera difettosa che funzionava a sprazzi, e il film approdň a risultati ben piů originali e ad invenzioni stilistiche assai piů corpose. Questa volta non si coglie alcun serio sviluppo della trovata di partenza, che rimane uno spunto e nulla piů.

Il salvatore d’uccelli, nubi e vento d’István “Taikyo” Szaladják č un film davvero singolare. Tutto si svolge in una landa semi desertica, punteggiata da grandi messi di grano, che un uomo e un giovane attraversano incontrando, ogni tanto, qualche contadino. L’adulto parla con gli uccelli, libera quelli finiti nelle trappole dei villani, indottrina il ragazzo sull’amore universale e la pace sino a finire ammazzato a bastonate dai contadini infuriati per questo sua passione ornitologica. E’ un film metaforico e spirituale oltre ogni limite, girato con bravura utilizzando al meglio i soleggiati panorami estivi, ma che non va oltre l’elzeviro morale.

Ágnes Incze, classe 1955, ha visto da giovane Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica e n’č rimasta talmente colpita da rifarne il celebre finale nel suo Rendez-vous. Questa volta a volare in cielo sono una serie di personaggi strani, alcuni dei quali forse provenienti da un lontano pianeta, che abbiamo seguito nel loro girovagare e pontificare in lungo e in largo per Budapest. Il senso dovrebbe essere la difesa e l’esaltazione degli umili e dei semplici contro la complessa e mercificata societŕ dei consumi, ma, anche in questo caso, l’originalitŕ appare piů programmata a tavolino che funzionale ad un preciso disegno stilistico.

Nel chiudere, sia consentita una citazione sull’ultima fatica di Péter Forgács. E’ questi uno degli autori piů personali e importanti del cinema magiaro contemporaneo. Le sue opere sono di difficile definizione, da un punto di vista dei generi. La loro costruzione si basa su immagini di film casalinghi o di repertorio, assemblate in modo da raccontare vere e proprie storie, umane e politiche, accompagnate da colonne sonore straordinarie, alcune delle quali firmate da Tibor Szemző come nel caso di Bibó breviarium (Frammenti d’István Bibo, 2002), Az örvény, (Caduta libera, 1997). La sua ultima fatica s’intitola A fekete kutya, történek a Spanyol polgárháborúból (Il cane nero, storie della guerra civile spagnola), č musicata dal giŕ citato Tibor Szemző e parte dai piccoli film girati da Ernesto Noriega, un cineamatore che, per sopravvivere č passato dai repubblicani ai franchisti. Attraverso i suoi piccoli film, il regista ricostruisce una Spagna umile e quotidiana, travolta dalla sanguinaria repressione fascista e dalle lotte intestine fra i repubblicani, immersa in un bagno di sangue che vide gli operai anarchici farsi boia di borghesissime famiglie di possidenti, devastazioni di chiese e fucilazioni in massa di difensori dello stato legale. Lo scorrere delle immagini segue il filo degli eventi bellici, ma non se ne preoccupa neppure troppo, avendo come obiettivo principale ricordare, attraverso scene di vita quotidiana la sofferenza di un popolo e l’insensatezza della violenza.

Umberto Rossi