Manderlay

Tegia: Lars von Trier; sceneggiatura: Lars von Trier; interpreti: Bryce Dallas Howard, Isaach De Bankolé, Danny Glover, Willem Dafoe, Jeremy Davies, Lauren Bacall, Chloë Sevigny, Jean-Marc Barr, Udo Kier, Michaël Abiteboul; produttori: Humbert Balsan, Gillian Berrie, Lene Børglum, Bettina Brokemper, Gunnar Carlsson, Tomas Eskilsson, Peter Aalbæk Jensen, Signe Jensen, Lars Jönsson, Liisa Penttilä, Tine Grew Pfeiffer, Els Vandevorst, Vibeke Windeløv; musica originale: Joachim Holbek; fotografia: Anthony Dod Mantle; montaggio: Bodil Kjærhauge, Molly Marlene Stensgård; ricerca attori: Job Gosschalk, Avy Kaufman, Nicolas Lublin, Joyce Nettles, Saida van der Reijd, Maggie Widstrand; direzione artistica: Peter Grant; arredatore: Simone Grau; costumi: Manon Rasmussen; società produttrici: Zentropa Entertainments, Edith Film Oy, Film i Väst, Invicta Capital Ltd., Isabella Films B.V., Manderlay Ltd., Memfis Film & Television, Ognon Pictures, Pain Unlimited GmbH Filmproduktion, Sigmalll Films Ltd.; nazionalità: Danimarca / Svezia / Olanda / Francia / Germania / Gran Bretagna; anno di produzione: 2005; durata:  139 min.

URL: http://www.imdb.com/title/tt0342735/
URL: http://www.manderlaythefilm.com/

TRAILER

A proposito di Manderlay di Lars Von Trier si potrebbero riprendere le cose scritte per Dogville (Palma d’Oro a Cannes nel 2003), cosa più che comprensibile, visto che questo nuovo film è il seguito di quello ed è la seconda parte di una trilogia alla cui puntata finale il regista sta già lavorando. Il procedimento stilistico – un grande capannone con pochi arredi scenici e, segnati per terra, i luoghi dell’azione – è lo stesso nei due film, così com’è identico l’intento di denunciare con forza polemica gli orrori di cui si è resa responsabile l’America. Un simile l’approccio ha richiesto agli attori una recitazione molto naturalistica, quasi sospesa nel vuoto dello spazio e resa libera dalla dichiarata falsità dell’impianto scenico. Qui il capobanda e la figlia Grace, in cerca di nuove occasioni di profitto, capitano in una piantagione dell'Alabama ove vige ancora la segregazione razziale. La donna si scandalizza vedendo le condizioni in cui è tenuta la gente di colore e, con l’aiuto dei bravacci del padre, prende il posto della vecchia proprietaria e ne sottomette i fattori. Il tutto con l’intento d’instaurare il regno della libertà e della democrazia. Le cose vanno diversamente, gli ex-schiavi, lasciati a se stessi, smettono di lavorare, litigano, muoiono di fame perché non sanno cosa. Alla fine sarà proprio la giovane idealista ad assumere toni dittatoriali e occupare il posto della vecchia padrona, fra il tripudio degli ex-schiavi che si ritrovano, finalmente, in una condizione che capiscono. La metafora sull’Iraq e l’esportazione della democrazia, teorizzata da George W. Busch, è palese e il metodo brechtiano adottato conferma la volontà, ad un tempo didascalica e militante, che muove il regista. Il tutto senza togliere un grammo alla sua verve poetica e stilistica. Certo, c’è meno innovazione rispetto all’opera precedente, di cui questa, stilisticamente parlando, appare più un perfezionamento che un passo avanti. Un difetto abbastanza marginale che non compromette il valore e la forza della proposta.

 
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