Don Giovanni

Testo di: Molière (Jean-Baptise Poquelin , 1620 - 1673); traduzione: Edoardo Sanguineti; regia: Marco Sciaccaliga; scene e costumi: Ezio Toffolutti; trucchi e pettinature: Kuno Schlegelmilch; musiche: Andrea Nicolini; luci: Piero Niego; interpreti: Gabriele Lavia, Eros Pagni, Daniela Giordano, Orlando Cinque, Federico Vanni, Matteo Taranto, Jurij Ferrini, Massimo Meschiulam, Vito Favata, Orietta Notari, Marta Comerio, Paolo Serra, Enzo Paci.
Don Giovanni è una figura cardine della cultura occidentale, un personaggio che ha attirato l'attenzione di poeti, drammaturghi, musicisti, cineasti. Personaggio simbolo al punto che molti considerano l'opera lirica scritta da Mozart, su libretto di Da Ponte, e rappresentata per la prima volta a Praga nel 1787, quale simbolo e spartiacque fra il mondo aristocratico e quello moderno. Sempre a proposito di questo melodramma, poi, si devono ricordare, almeno, la lettura, in chiave marxista fattane da Joseph Losey nel film del 1979 e quella realistica proposta da Giorgio Strehler nella versione scaligera del 1987. Più di un secolo prima del debutto mozartiano, nel 1665, Moliére, angustiato per le critiche rivolte dai benpensanti al "Tartufo", scrisse un "Don Giovanni" una cui nuova messa in scena ha inaugurato la stagione del Teatro di Genova. Diretto da Marco Sciaccaluga e l'interpretato, nei ruoli principali, da Gabriele Lavia ed Eros Pagni, lo spettacolo ha due volti. Nel primo tempo, in una scenografia quasi spoglia, Don Giovanni e il servo Sganarello vagano su una vecchia moto con sidecar, incontrando gli altri personaggi del dramma, discutono sull'esistenza di Dio e confrontano fede e scetticismo. E' la parte migliore, con la costruzione di un "libertino" quasi beckettiano e che ha perso fede e illusioni. Un disperato che cerca di coprire, col piacere sessuale, un lacerante vuoto interiore. Una figura che riassume, il cinismo e la disperazione dell'uomo moderno costretto a fare i conti, senza mediazioni religiose o ideologiche, con la sua vera natura. Nel secondo tempo tutto si rovescia e dilaga il più classico "teatro d'attore", con sovrabbondanza d'urli e masse isteriche. Persino la scenografia, sobria e funzionale nella prima parte, cede al vezzo dell'abbondanza simbolica, agli accenni, non proprio giustificati, alla pittura metafisica di De Chirico. Una caduta di stile che compromette non poco il senso dell'intera proposta.

 

Globale